Beni confiscati: una legge per il riutilizzo
23.576 beni immobili confiscati alle mafie, 3.585 aziende. Sono dati imponenti, probabilmente approssimati per difetto, diffusi dall’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, e descrivono la grande rilevanza assunta dal fenomeno che investe tutte le regioni italiane. Fondazione con il Sud ha realizzato due bandi per sostenere progetti di valorizzazione e gestione di beni confiscati. Sulla base di questa esperienza e in collaborazione con il Forum del Terzo settore e con alcune fondazioni di origine bancaria, ha presentato una proposta di profonda revisione della materia. Il tema è che la legge Rognoni – La Torre e la L. 109/96, per il riutilizzo sociale dei beni confiscati, a vent’anni dall’approvazione, mostrano una crescente inefficacia. Gli immobili sequestrati non sempre vengono assegnati e giacciono abbandonati, non ci sono risorse per la loro ristrutturazione, le aziende che sono riuscite a rimanere sul mercato sono pochissime. Per i comuni, che sono i primi destinatari delle confische, i beni rappresentano «più un problema che un’opportunità». Il rischio è che quelle leggi che hanno rappresentato una svolta decisiva nella lotta alle mafie possano produrre l’effetto opposto: l’incapacità dello stato di restituire alle comunità le ricchezze sottratte dai mafiosi, il simbolo del loro potere e del loro prestigio. Un immobile abbandonato rende vana la mobilitazione dei cittadini, i lavoratori di un’azienda confiscata, condannati alla disoccupazione, sono la testimonianza di un fallimento politico prima che economico. Eppure i beni confiscati possono rappresentare, oltre che una vittoria della legalità anche un’opportunità di sviluppo, se vengono gestiti in una logica di sistema. Oggi esiste un’Agenzia nazionale che non ha poteri di coordinamento. Ogni procedimento di confisca segue un proprio iter, spesso lunghissimo e distinto dagli altri. Ogni immobile viene gestito separatamente. Le imprese perdono capacità operativa e sono quasi sempre condannate alla chiusura. Le somme liquide sequestrate (oltre 3,5 miliardi di euro), affluiscono al Fondo unico di giustizia e destinate ad altre finalità.Lo studio della Fondazione propone la costituzione di un ente nazionale che abbia il compito di coordinare e valorizzare l’insieme dei beni confiscati: immobili, aziende, somme di danaro. Il nuovo ente deve assicurare una gestione economica, trasparente e partecipata (con rappresentanti degli enti locali e delle associazioni impegnate sui temi della legalità). Il danaro che ora affluisce nel FUS deve servire per ristrutturare gli immobili, sostenere i progetti di riuso sociale, riavviare le attività delle imprese. Gli amministratori giudiziari devono essere affiancati da temporary manager che devono verificare lo stato delle imprese e le condizioni di un loro reinserimento nel mercato. Il patrimonio immobiliare che non può essere dedicato a finalità sociali deve essere alienato e i proventi utilizzati al servizio del sistema. Si tratta di una proposta molto articolata che si avvale anche di uno studio di Nomisma.Attualmente è in discussione al Senato l’aggiornamento della legislazione antimafia. I tempi sono maturi per dare nuovo impulso al riuso dei beni confiscati.